Una storia di ambiziosi fornai, grandi architetti e finanza alla romana | Open House Roma

Una storia di ambiziosi fornai, grandi architetti e finanza alla romana

Sfiorato dalla Tangenziale Est, più volte trasformato in oltre un secolo di vita, l'ex Pantanella oggi è un luogo rinato, dove si fa ricerca e si salvano vite.

di Davide Paterna

Fotografie di Nicholas Berardo, Gianluca Fiore, Nico Marziali, Byus71

Foto di Nicholas Berardo

Osservare la crosta terrestre con Maps 3d non desta più lo stupore degli inizi, quando all’improvviso Google rese disponibile questo dispensario gratuito di semi-divinità. Vedere ma non toccare, ma quanto vedere, quanta illusione di potenza.

Eppure, qualora decidessimo di planare su una città qualsiasi, una Roma a caso, dimenticandoci delle vicissitudini contemporanee, proveremmo sempre la stessa meraviglia nel vedere, approfondendo gradualmente la mira, quella macchia immersa nell’agro prendere forma in rughe urbanistiche e protuberanze architettoniche sfumate nel rossore del laterizio e coronate dal dedalo grigio-verdastro delle consolari. Un volto segnato dalle epoche ma non arresosi al tempo, quello dell’Urbe.

È così, orientandomi o perdendomi in questa millenaria foresta pietrificata, che seguo il guizzo della strana arteria ormai data per incompiuta, essenziale pilastro della mobilità capitolina che è la Tangenziale est, ex Asse attrezzato, residuo del mitico SDO (Sistema Direzionale Orientale), ispirata dalla mano nipponica dell’architetto Kenzo Tange per la quale opera, nomen omen, doveva essere predestinato dalla nascita.

Una sinuosa fettuccia che lambisce la Roma olimpica tagliando di netto il Tevere, sfiorando Villa Ada, intercettando e accavallandosi con il fascio ferroviario della Salaria-Tiburtina, svicolando lungo la dolce curva del Verano fino a concludersi, incomprensibilmente, in una nervosa chicane che rattrappisce l’asse stradale fino alla strettoia di via Castrense, sospesa tra la palazzina del primo Fantozzi (quello dell’autobus “al volo”) e di un imponente palazzone di 11 piani color cielo chiaro, nato mulino e resuscitato torre residenziale; un tempo nemmeno troppo lontano, ambizioso terminale di una grande fabbrica romana, il Pastificio Pantanella, fondato da Michele Pantanella da Arpino, Frosinone, e chiuso nel 1974 dopo cent’anni di attività perché più redditizio da morto che da vivo.

Il passaggio della tangenziale est rasente l’ex fabbricato del Mulino di Vittorio Banlio Morpurgo. Foto di Nicholas Berardo.

Un’impresa sacrificabile sull’altare della valorizzazione immobiliare in una città dove da sempre l’industria più florida è stata quella delle costruzioni. Un’area, quella situata tra il Pigneto, l’Esquilino e San Lorenzo, che il satellite ci restituisce geometricamente come un tassello perfettamente rettangolare, quasi fosse reciso chirurgicamente dal tessuto urbano, separato dall’intorno da un fastello di infrastrutture stratificatesi nei passaggi storici: dalla massicciata ferroviaria direzione Termini alla Tangenziale est, all’Acquedotto Appio-Claudio che si distende accompagnando la Casilina fino a ripiegare, a gomito, su Porta Maggiore. Il Pantanella sta tutto qui.

Il destino vuole che intorno alla metà del 1860, Michele Pantanella insieme a sua moglie Angela proprio da questa Porta abbia varcato la soglia della città, allora Capitale dello Stato Pontificio, al termine del loro viaggio della speranza. Risalendo la Casilina, entrando dalla Porta Maggiore, si saranno interrogati quasi certamente sull’origine di quei resti proprio accanto alla porta, sottratti all’anonimato solo qualche anno prima. Avranno forse letto, affascinati dal latino, l’iscrizione "EST HOC MONIMENTUM MARCEI VERGILEI EURYSACIS PISTORIS, REDEMPTORIS, APPARET" ("Questo sepolcro appartiene a Marco Virgilio Eurisace, fornaio, appaltatore, apparitore"), che identifica la cosiddetta tomba del fornaio così come suggerito anche dal fregio che riporta le varie fasi della panificazione.

Il sepolcro di Eurisace a Porta Maggiore. Foto di Byus71

Un arrivo ben augurante, in una città che avrebbe visto sorgere nel nome di Pantanella e proprio davanti a quel sepolcro quella che negli anni ’50 sarebbe diventato il primo pastificio europeo per capacità di produzione.

Cominciata come street fooder di pizzette di gran turco, la carriera di Michele avanza intersecando l’evolversi improvviso degli eventi politici, dalla liberazione dei bersaglieri alla Capitale d’Italia nel 1871, con il conseguente aumento della popolazione e la messa all’asta dei possedimenti Vaticani. Nasce così, dall’acquisto di alcuni immobili in via dei Cerchi, il primo pastificio, a due passi dal Circo Massimo in un’area semi-abbandonata, all’epoca poco più che periferia. Sono gli anni in cui Roma si evolve velocemente, così come il destino del Pastificio che passerà progressivamente di mano dai Pantanella alla Banca Romana, poi fallita clamorosamente, ma anche al Vaticano, ritornato così in possesso degli immobili e del loro valore aggiunto.

Il Pantanella, fondendosi con la Società Molini, già in possesso di uno stabilimento all’inizio di via Casilina, si trasferisce negli anni ’30 su quest’area dove nel frattempo, nel 1913, era stato eretto un imponente silos, una grande cattedrale laica, evocativa della forza economica dell’allora industria romana. Quando ancora le mura aureliane segnavano il confine netto tra la nobile Urbs e il suburbio senza storia, il silos industriale dello stabilimento Società Molini e Pastificio Pantanella rivolgeva la sua monumentale facciata verso Porta Maggiore, agognando la conquista di una pari dignità architettonica. In ogni angolo di questa città v’è testimonianza della virtù passata, in ogni nodo vitale, in nome dell’utilitas l’architettura è sopravvissuta trasformandosi e venendo riadattata agli usi e alle esigenze delle epoche nuove. Così in Italia, ma soprattutto a Roma, ogni nuovo progetto, ogni nuova iniziativa edilizia fin dal principio si trova di fronte al dilemma del confronto esistenziale con il contesto. Così l’architettura industriale di inizio secolo. E se nel momento giusto la matita giusta per una serie di coincidenze fortuite va a finire tra le mani fumanti di un progettista come Pietro Aschieri, il rischio da calcolare è l’aggiunta di una pagina ai libri di storia dell’architettura. E su questa pagina va aggiunto il fabbricato del nuovo pastificio, passato all’architetto romano dopo che era stato iniziato senza alcun clamore dall’ingenere Alberto Naldini, stesso autore del silos.

L’imponente ex-silos in secondo piano. Foto di Nicholas Berardo.

Aschieri, fine scenografo, si lancia nella sfida di dare voce alla figuratività modernista che gli scorreva nelle vene, senza però rinunciare alla relazione urbana con il contesto storicizzato. Senza il minimo tremolio dei polsi, egli si fa autore di un dialogo generativo tra Porta Maggiore e la fabbrica, tra Eurisace e Pantanella.

Risultato esemplare e pluricitato ne è la sequenza delle otto finestre circolari che segnano i prospetti laterali, omaggio agli oculi della tomba del fornaio, a quanto pare richiamo alle camere per la lavorazione del grano. Ma ancora più straordinario, in questa fitta tessitura tra antichità e modernità, tra città storicizzata e città che avanza, è il progetto della facciata principale del pastificio, quella rivolta verso Porta Maggiore, oggi oscurata da un discutibile edificio realizzato a ridosso negli anni ’60.

Il pastificio di Pietro Aschieri, prospetto laterale. Foto di Nicholas Berardo.

La porta del pastificio viene pensata da Aschieri come reinterpretazione in chiave modernista dello spartito di Porta Maggiore. Ne sono la prova la sequenza di pilastri nervati e di ampie bucature che rimandano alle colonne alternate ai fornici e alle edicole della Porta. Ma anche il finestrone orizzontale che conclude il prospetto, si rilegge solo a pochi metri di distanza come citazione della trabeazione in marmo che completa il trilite della Porta romana. Pieni e vuoti, elementi orizzontali e verticali che nella mente da scenografo di Aschieri acquistano una plasticità evocativa della forza, quasi mostruosa, della fabbrica.

Il pastificio di Pietro Aschieri, prospetto frontale. Foto di Nicholas Berardo.

Dove Maps finisce comincia l’approfondimento dell’appassionato e la tentazione di uscire dall’appiattimento digitale per rivivere il racconto che nella sua tridimensionalità si sta facendo strada nei miei pensieri, anche se non mi sfugge che di acqua sotto i ponti ne è passata e, oggi, di pasta Pantanella non se ne fa più. E sì, perché dopo aver raggiunto la massima espansione negli anni ’50, accade che il boom dell’immobiliare del Dopoguerra spingerà i confini della città sempre più a est, innescando la valorizzazione delle aree un tempo periferiche. Chissà cosa avrebbe fatto Michele Pantanella di fronte alla tentazione speculativa, quello che sappiamo è ciò che hanno fatto i fondi in possesso dello stabilimento: chiudere. Siamo all’inizio degli anni ’70, quando la tangenziale sorvolava la Casilina atterrando sotto gli archi di via Castrense.

La riconversione del pastificio in residenze. Foto di Nicholas Berardo.

Soli pochi anni prima, esattamente 50 anni fa, un’altra storia: veniva fondata a Roma, da un piccolo gruppo di ematologi, l’Associazione Italiana contro le Leucemie – l’AIL. Tra questi pionieri un uomo in particolare, piccolo di satura ma grandissimo d’intelletto e cuore, Franco Mandelli, che trasformerà l’ematologia non solo in Italia, portando dentro gli ospedali un’organizzazione mirata all’assistenza dei malati e delle loro famiglie, ma anche facendo compiere grandi balzi in avanti alla ricerca scientifica grazie soprattutto alla costituzione del GIMEMA (Gruppo Italiano Malattie Ematologiche dell’Adulto).

La sede dell'AIL. Foto di Nicholas Berardo.

L’AIL dal 2006 e la Fondazione GIMEMA dal 2009 risiedono al Pantanella, all’interno di due dei fabbricati dell'ex-stabilimento, oggi quasi completamente riconvertito a super condominio residenziale. Due storie, quella di Michele Pantanella da Arpino e di Franco Mandelli da Bergamo, che ci ha lasciato nemmeno un anno fa, molto diverse ma accomunate da una grande forza di volontà e visione. Due storie che echeggiano oggi tra i vialetti in porfido, ammantando questo insieme di fabbricati stretti tra Porta Maggiore e la Tangenziale di una dignità e di un’intensità umana che la ristrutturazione degli anni ’90 operata dalla società Acqua Marcia su progetto dell’architetto Bruno Moauro non ha saputo far riemergere dalla lunga fase di abbandono e occupazione.

Il solo edificio sottratto al restyling edulcorato degli anni ’90 è proprio la sede della GIMEMA, al tempo del Pantanella modesto capannone prolungamento del pastificio, ora ripensato come dinamico spazio lavorativo da un intervento di interior design firmato MDAA, vocato alla leggerezza e alla plasticità dei volumi rivestiti in policarbonato e acciaio.

Uno squarcio di vitale laboriosità e sensibilità contemporanea che sottrae la conclusione di questo sorvolo su un pezzo dell’impresa e dell’urbanistica romana, all’abituale e scontata rassegnazione fatalista.

L’interno della Fondazione GIMEMA. Foto di Nico Marziali.

Roma, quest’angolino di mondo in perenne lotta per la sopravvivenza del suo mito, ha bisogno invece di ritrovare ancora una volta una sua utilitas, un suo ruolo, plasmato dal coraggio di vivere la propria epoca che spingeva nel 1989 Kenzo Tange a dichiarare:  

"Sono un innamorato di Roma, che ho visitato almeno 150 volte dopo la guerra, ma so anche che così com'è oggi la città è destinata a morire. Non c'è più tempo da perdere".

No, non c'è.

Il team del GIMEMA. Foto di Gianluca Fiore.

Durante Open House Roma sarà possibile visitare l'ex Mulino Pantanella e la Fondazione GIMEMA. Sarà inoltre possibile visitare la mostra Pantanella Stories e assistere alla proiezione del documentario Panta Rei Pantanella, a cui seguirà un talk con l'autrice Emilia Rosmini e Mimmo Cecchini. Più info al nostro programma.

Quest'articolo è stato realizzato per Open House Roma 2019 / Utilitas in collaborazione con CieloTerraDesign e fa parte di Rooms, progetto editoriale curato da Open City Roma.

Fai una donazione. Anche pochi euro ci aiuteranno a far crescere l’evento e promuovere una città aperta, condivisa, partecipata da tutti.

DONA 5€ DIVENTA SOSTENITORE