Open House Roma | #OHR19 11—12 MAGGIO 2019

FONDO ANDREA CAMILLERI

 

 

Uno spazio per le parole di Camilleri
 

Il Fondo, pensato e progettato dallo stesso Andrea Camilleri insieme allo studio SDB architettura, nasce con l’obiettivo di tutelare la sua eredità culturale. Lo spazio caldo e accogliente è pensato come luogo di studio, di conoscenza e di condivisione del patrimonio lasciato da Camilleri, della sua opera come scrittore, autore teatrale e radiofonico, regista, intellettuale e figura pubblica. Un luogo vivo in cui promuovere attività di ricerca e iniziative rivolte al pubblico.

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PALAZZO SILVESTRI RIVALDI

Una nuova vita per la dimora rinascimentale affacciata sul Colosseo
 

Palazzo Silvestri Rivaldi, il cui nucleo originario cinquecentesco è opera di Antonio da Sangallo il Giovane, ha vissuto tante vite nell’arco di circa quattro secoli, tutte impresse nel suo aspetto attuale. Gli affreschi rinascimentali e i soffitti a cassettoni, le rappresentazioni di pavoni, ghirlande, condottieri romani e imperatori, le fontane e il ninfeo nel giardino pieno di piante e arbusti, ci raccontano storie dense di modifiche e stratificazioni. 

MUSEO DELLE NAVI DI FIUMICINO

Antiche storie di viaggi sull’acqua

 

Il Museo delle Navi di Fiumicino ospita una delle più importanti collezioni di navi antiche del Mediterraneo, di cui i cinque relitti principali formano un insieme eccezionale: tre imbarcazioni fluviali per il trasporto delle merci lungo il Tevere tra Portus e Roma, una nave da trasporto marittimo e una delle rare barche da pesca conosciute di età romana. 

SOTTERRANEI PALAZZO FARNESE E BIBLIOTECA ÉCOLE FRANÇAISE DE ROME

I restauri in corso e la biblioteca dell’École Française de Rome (anteprima)

 

La tradizione e l’intensità degli scambi tra Italia e Francia in ambito culturale sono note e di lungo corso. La visita a Palazzo Farnese, capolavoro architettonico del Cinquecento romano sede oggi dell’Ambasciata di Francia in Italia e dell’École Française de Rome, ci permetterà di compiere un vero e proprio viaggio nel tempo attraverso un dialogo a tre voci intenso e stimolante. 

La seconda vita della Saracena, alla scoperta del restauro che ha salvato il capolavoro di Luigi Moretti

Un recupero complesso torna a far brillare la villa a Santa Marinella che l'architetto usò come laboratorio nel suo doppio ruolo di intellettuale e progettista.
 
di Laura Calderoni
 
fotografie di Giorgio Pasqualini

Metà anni Cinquanta, estasi da boom economico, feste, auto sportive, divismo e paparazzi: Santa Marinella è conosciuta come “la perla del Tirreno” e sfida Saint Tropez e Sanremo per il primato di luogo privilegiato dell’alta società internazionale.

Scelta da Giorgio Bassani per la prima stesura de Il Giardino dei Finzi Contini, scritto nell’Hotel Le Najadi, buen retiro della coppia Bergman-Rossellini che ospitano nella loro bianca villa sul mare Gregory Peck in pausa dalle Vacanze romane, Rock Hudson, Marlon Brando e Federico Fellini e Dino Risi che gira alcune scene de Il sorpasso proprio nella piccola stazione della località balneare, Santa Marinella diventa in pochi anni luogo d’elezione anche per i romani che contano; non c’è quindi da stupirsi se Francesco Malgeri chiama l’amico Luigi (Walter) Moretti per progettare la villa della figlia Luciana, divenuta principessa dopo il “chirurgico” matrimonio con Don Nicolò Maria Pignatelli Aragon Cortès.

Malgeri è un giornalista di lungo corso, direttore del Secolo XIX prima e del Messaggero poi, fedelissimo di Mussolini fino al 1941, quando viene epurato e poi imprigionato a Regina Coeli per le sue posizioni antitedesche. Subito dopo la guerra emigra in Brasile, per tornare in Italia agli inizi degli anni Cinquanta e riprendere la professione di giornalista fino a diventare presidente dell’Ansa sul finire della carriera.

Come Malgeri, anche Moretti ha una storia personale e professionale segnata dalla sua adesione al regime, ragione per cui le sue opere saranno ignorate se non osteggiate dalla critica architettonica, almeno fino agli anni Novanta: Moretti è stato infatti un fascista convinto, mai pentito, forse repubblichino; ha guidato a partire dal 1933 l’ufficio tecnico dell’Opera Nazionale Balilla, ovvero il maggiore strumento di propaganda del regime per “educare” i giovani italiani al fascismo e, nel dopoguerra, dopo una breve parentesi a San Vittore, riprende con successo l’attività professionale anche grazie alle sue amicizie pregresse, fondando una sua società di costruzioni e diventando l’architetto di riferimento della vaticana Società Generale Immobiliare.

Allo stesso tempo però Moretti è un intellettuale raffinato e progressista, fondatore e direttore della rivista Spazio – Rassegna delle arti e dell'architettura dove pubblica una decina di suoi saggi, direttore dell’omonima galleria dove ha esposto anche Jackson Pollock, fondatore dell’Istituto Nazionale di Ricerca Matematica e Operativa per l’Urbanistica dove porta avanti le sue ricerche sull’architettura parametrica e, con il critico Michel Tapié e l’amico Franco Assetto, fondatore dell’International Center of Aesthetic Research, luogo di sperimentazione per le arti. Moretti ha una voracità intellettuale affiancata a una eccezionale capacità imprenditoriale, ed è forse proprio questa sua figura di imprenditore-intellettuale, poco impegnato politicamente, ma sicuramente schierato, ricercatore appassionato e raffinato esteta, architetto di cantiere e fine saggista, a renderlo tanto sfuggente e scomodo al mondo accademico del dopoguerra.

 Quando Moretti riceve l’incarico per realizzare La Saracena ha da poco pubblicato sulla rivista Spazio il suo saggio Strutture e sequenze di spazi che nell’incipit riassume alcuni caratteri che saranno poi sviluppati nel progetto della villa: “Una architettura si legge mediante i diversi aspetti della sua figura, cioè nei termini in cui si esprime: chiaroscuro, tessuto costruttivo, plasticità, struttura degli spazi interni, densità e qualità delle materie, rapporti geometrici delle superfici e altri più alieni, quali il colore…”.

La Saracena è dunque una sequenza di spazi che si dipanano fino al mare: spazi in cui lo sguardo viene guidato in una danza inarrestabile, accompagnato dalle aperture prospettiche, dalla scomposizione delle superfici fino a placarsi sull’orizzonte marino.

Dalla strada appare come una cattedrale calcarea, con la bassa recinzione che fa da misura ai volumi arretrati; da un piccolo cancello si accede al recinto-giardino ellittico, in cui l’alterazione della simmetria, data dallo sfalsamento dei due lembi dell’ellisse e dal decentramento del vestibolo, dà il via a una inarrestabile concatenazione di spazi, chiaroscuri, superfici che si addensano e si distendono attraverso la materia scabrosa dell’intonaco bianco, reso vivo dalla luce che su di esso si scompone. 

Sarebbe poco interessante descrivere pedissequamente questa sequenza, ma proviamo ad affacciarci sul grande atrio, appena varcata la soglia del vestibolo ombroso, per una prima timida occhiata: da qui lo sguardo è subito raccolto dal cannocchiale visivo verso il giardino interno e, seguendo il percorso del taglio di luce orizzontale, viene proiettato in una corsa a perdifiato verso la galleria, accelerato dalla sequenza serrata delle finestre a nastro, scomposto dai tagli di luce che fanno volare il soffitto e le pareti, investito dalla forza centripeta del volume circolare della zona pranzo, ammaliato dalla linea dell’orizzonte che attraversa lo spazio distendendosi lungo le superfici e diventando parte dello spazio interno.

Se invece volgiamo lo sguardo alla nostra sinistra, verso il volume alto che accoglie la zona notte, veniamo catturati dal moto ondoso della scala che si stacca dalle pareti e si inerpica verso l’alto, sostenuta dalla luce che penetra dalle fenditure sulla superficie muraria e dall’oculo in alto, che lascia intravedere uno spicchio di cielo.

Ecco, abbiamo appena fatto un passo all’interno della villa, ci siamo timidamente affacciati sulla sua soglia, che già una vertigine ci ha colto. Allora abbassiamo lo sguardo e ci soffermiamo sul pavimento in ceramica smaltata su cui la luce si riflette rendendo acquosa la superficie e facendo emergere una costellazione di delicati disegni di uccelli ed elementi arborei, contiamo quante decorazioni riusciamo a scorgere da qui, seguiamo il percorso delle fughe fino ai nostri piedi dove, con un po’ di stupore, scorgiamo una piccola chiave dipinta come invito ad aprire le porte della villa e a lasciarci trasportare dalla sua danza.

Moretti lavora alacremente al progetto, disegnando tutto, dai particolari degli infissi alle soluzioni strutturali di dettaglio, agli arredi dei diversi ambienti; basti pensare che nel Fondo Luigi Moretti conservato all’Archivio Centrale di Stato sono presenti ben dieci versioni del divano dell’atrio, i cui braccioli, da quanto riportato sui suoi schizzi, non dovevano interferire con la vista verso il mare godibile dalla grande finestra. 

Moretti considera il progetto per La Saracena un laboratorio in cui sperimentare la sua duplice natura di intellettuale e architetto, ibrida l’architettura pompeiana con la casa mediterranea, il Barocco con le sperimentazioni di Gaudì, l’arte informale con la matematica.

Un mondo complesso che apre a molte riflessioni, che destabilizza e affascina, che si dipana in molte strade da percorrere, ma che si materializza nella bellezza di un’architettura in cui, come scrive lo stesso Moretti, “si leggono direttamente le qualità emotive delle murature come tali, cioè come peso, come disegno rastremato col diminuire dei carichi, come forza di sostegno e di spartizione degli spazi. Forse il segreto della costruzione è proprio in questa semplicità di lettura in ogni sua parte del fatto muro”.

Sessant’anni dopo questa complessità deve essere stata parte della sfida raccolta dall’architetto Paolo Verdeschi, chiamato a restaurare la villa.

“Il problema maggiore per il restauro - ci dice Verdeschi - è stato il reperimento dei dati. Moretti disegnava molto e sulla Saracena abbiamo molto materiale, ma era anche un architetto che lavorava in loco insieme alle maestranze e ai collaboratori; molte scelte sono state fatte sul cantiere stesso”. 
Mentre ci mostra una maquette che ha realizzato appositamente per studiare la struttura della pensilina esterna, che proietta l’intera villa verso il mare e senza la quale la “grande nave Saracena” rimarrebbe a terra, continua: “Di questa pensilina, per esempio, abbiamo trovato solo uno schizzo in sezione e due foto d'epoca laterali. Sappiamo che è crollata pochi anni dopo la sua realizzazione grazie a due foto poloraid trovate all’interno di un testo nella libreria del soggiorno. Con queste poche informazioni abbiamo cercato di riprodurre le dimensioni delle travi e il sistema tecnico degli stralli scelto da Moretti per questo "traliccio" che ricorda le alberature di una barca a vela. Abbiamo quindi scelto di ricostruirne l’immagine, con materiali capaci di resistere ai forti venti che si abbattano sulla testata della Saracena.

Il tema della nave è un tema caro a Moretti, tanto che lo spazio tra la veletta e la vetrata dell’intera galleria era occupato da una serie di modellini di navi; il mare che Moretti amava sarà anche il suo ultimo paesaggio: morirà infatti di infarto nella sua barca al largo all’isola di Capraia nel 1973.

Man mano che ci addentriamo nel racconto del cantiere di restauro, che con certosina pazienza Verdeschi ha seguito per due anni e mezzo, ci sembra sempre più chiaro come Moretti intendesse La Saracena come un laboratorio di sperimentazioni, una sorta di “bottega d’artista” in cui testare soluzioni tecniche e manipolazioni spaziali. Un altro dei temi inediti emerso durante il cantiere è il colore, anzi, “i colori di Moretti”: l’arancione corallo della parete che fa da cerniera tra la galleria e la vetrata sul giardino, il rosa pallido del piano interrato e del muro basso della galleria, l’arancione fuoco della balaustra della scala, il verde chiaro delle porte delle camere di servizio e della rubinetteria, il rosa deciso delle guarnizioni delle porte delle camere fatte con il raso, il celeste della cucina. Ma perché allora oggi la villa ci appare in tutto il suo astratto biancore?

Spiega Verdeschi: “I colori che abbiamo trovato durante il restauro erano stati coperti, ma non sappiamo se da Moretti stesso, che dopo aver provato varie cromie non si era convinto delle scelte, oppure dai proprietari. Non abbiamo nessuna testimonianza. Resta il fatto che Moretti ha più volte affrontato il tema del colore in molti suoi progetti, e anche nella Saracena”.

La Saracena non è un’architettura “immediata”, l’impianto scenografico che fa del mare il suo fondale privilegiato è solo il primo di una serie di concatenazioni, rimandi, spazialità che si scoprono pian piano. Particolari che sfuggono al primo sguardo o che è possibile capire solo vivendola, osservandone i cambiamenti della luce che gioca con i volumi e le superfici, sfiorando le superfici lisce o scabrose, modulando il rumore del mare attraverso la galleria.

Andiamo quindi alla ricerca di chi la Saracena l’ha vissuta come “casa”: Eleonora e la sua famiglia da circa trent'anni passano qui le loro vacanze e il tempo libero. “Quando mio padre la acquistò nel 1988, la villa aveva già molti problemi manutentivi, la vicinanza con il mare aveva fatto molti danni e facemmo solo alcuni interventi per tamponare quelli maggiori”. La Saracena è un’architettura fragile che ha bisogno di cure costanti e di investimenti cospicui per mantenere intatte le scelte fatte da Moretti con tecnologie che risalgono agli anni Cinquanta. “Diciamo che come casa al mare non è l’ideale, e per questo mi sono decisa a fare un lavoro di recupero più strutturale, ad investire molto, proprio per restituire La Saracena a una fruizione diversa, non solo come casa di villeggiatura per la mia famiglia, ma anche come luogo vivo dove organizzare eventi, mostre, visite, convegni”.  Una fruizione che metta insieme l’idea di monumento da tutelare a quella di spazio attivo e vivo, aggiungiamo noi: la Saracena potrebbe diventare una “casa museo” sul modello della Villa Savoye alle porte di Parigi, essere riconosciuta per la sua importanza nella storia dell’architettura e raccontare l’opera di uno degli architetti italiani più talentuosi e controversi, un architetto che ha attraversato, professionalmente, quarant’anni di storia italiana, dagli anni Trenta ai Settanta.

“Fare colazione sulla terrazza verso il mare, leggere al pomeriggio nel giardino circolare all’ingresso che è molto ventilato, riposare nella terrazza del primo piano così silenziosa e protetta, passeggiare nella galleria…” sono le cose che Eleonora ama fare di più a La Saracena. Ancora una sequenza, una concatenazione di spazi, luce, suoni. Architettura e vita.

Open City Roma ha iniziato una collaborazione con la proprietà per costruire un percorso di valorizzazione e fruizione della Villa Saracena.

Al progetto di restauro hanno collaborato gli architetti Flavio Fiorucci, Giulia Seppiacci e Giulio Valerio Mancini. E le maestranze: Edilperfect per le opere murarie, S.T.A.F. per i nuovi infissi in legno, il falegname Felice Minervino per il restauro degli infissi in legno, Foschi Costruzioni per le strutture in ferro, Starglass per i vetri.  

Quest'articolo fa parte di Rooms, progetto editoriale ideato da Open City Roma e curato in collaborazione con Cieloterradesign.

Portonaccio e Pietralata, l'altra Roma tra Soho e via Margutta

Viaggio nelle ex aree industriali della capitale riconvertite spontaneamente a luoghi della creatività, tra fotografia, architettura e prove tecniche di nuovi distretti

di Paola Ricciardi
foto di Nicholas Berardo, Giulia Manelli e Sebastiano Luciano

L'atelier Lost and Found di Angelo Cricchi a via Arimondi. Fotografia di Nicholas Berardo.

Un televisore degli anni Sessanta. Tre manichini senza testa e senza braccia. Un candelabro a quattro bracci. Un pupo siciliano. Due poltrone con la seduta sfondata.

Quello che colpisce immediatamente lo sguardo, entrando nell'atelier Lost and Found di Angelo Cricchi, sono gli oggetti che popolano questo grande spazio ex industriale immediatamente fuori l'anello ferroviario di Roma. Oggetti vecchi, curiosi, di valore o senza alcun mercato, ma che hanno in comune qualcosa di inafferrabile, che forse è il fatto di sembrare oggetti “amati”: amati da qualcuno che li ha presi, sottraendoli a un destino di irrilevanza o a un restauro che ne avrebbe cancellato ogni imperfezione guadagnata col tempo, e così come erano li ha fatti diventare abitanti di un luogo, protagonisti di una scenografia, perfino quando sono accumulati compulsivamente – ma non casualmente – su una parete o in una vecchia credenza.

L'atelier Lost and Found di Angelo Cricchi a via Arimondi. Fotografia di Nicholas Berardo.

Angelo Cricchi, il proprietario degli oggetti – e dello spazio – è un fotografo e produttore affermato, direttore creativo della rivista Flewid, che di questo studio ha fatto anche la sua abitazione azzerando i confini tradizionali tra lavoro e vita.

Angelo Cricchi nel suo atelier-abitazione. Foto di Nicholas Berardo.

Siamo nel densissimo quartiere romano di Casal Bertone-Portonaccio, dove un tessuto di caseggiati è nato all'inizio del Novecento per alloggiare la classe operaia della vicina fabbrica Snia Viscosa: questo doveva essere infatti, insieme all'Ostiense, uno dei due poli industriali di Roma, progetto mai compiutamente realizzato dal Governo, come ricorda Italo Insolera nel suo “Roma moderna”, per timore che nella capitale d'Italia, sede delle istituzioni, si ammassassero le pericolose classi operaie sindacalizzate. Così, quando le poche fabbriche di Roma hanno chiuso, è arrivata la speculazione edilizia a pompare denaro nell'economia della città e occupare ogni metro quadrato libero.

Via Arimondi a Portonaccio. Foto di Nicholas Berardo.

Per raggiungere Lost and Found bisogna però spingersi quasi al limite del quartiere: qui il tessuto urbano si sfrangia per fare spazio alle infrastrutture della ferrovia e della Prenestina, al grande parco industriale dell'ex Snia, al pulviscolo delle piccole fabbriche coinvolte nella filiera della produzione a larga scala; sembra che la città finisca – e qui finiva molto tempo fa – e invece continua per chilometri.

L'atelier si trova in quello che è un palazzone di 7 piani, troppo alto per essere una fabbrica e con certe finestre troppo grandi per essere una casa, e della cui natura non siamo certi nemmeno una volta varcata la soglia di ingresso.

L'edificio di via Arimondi sede dell'atelier Lost and Found. Foto di Nicholas Berardo.

“Nessuno lo sa questo posto che cos'era” ci dice Angelo mentre ci accoglie nell'atelier che affaccia direttamente sul fascio dei binari della ferrovia “Forse un deposito di automobili. Le macchine arrivavano coi treni merci dalla stazione e poi venivano caricate ai diversi piani tramite un montacarichi ancora esistente, che adesso non funziona più”.

La ferrovia dall'edificio di via Arimondi. Foto di NIcholas Berardo.

Ora i piani di questo (forse) ex silos sono occupati da laboratori di artisti, studi professionali, qualche abitazione; l'aspetto degli spazi condominiali è rimasto rude, spoglio, con le porte di ferro, la struttura in cemento armato a vista, i pianerottoli appena ingentiliti da qualche pianta; gli spazi interni racchiudono invece piccoli mondi pieni di oggetti e di storie da raccontare.

L'atelier Lost and Found di Angelo Cricchi a via Arimondi. Fotografia di Nicholas Berardo.

Dopo Lost and Found visitiamo gli atelier di Barbara e Stella Marina Gallas: la prima, restauratrice professionista per 30 anni, porta avanti ora una ricerca sul recupero di tecniche e materiali antichi applicati alla pittura; il suo studio/abitazione è minuscolo e pieno di opere finite, esperimenti, tentativi, barattoli di tinte, pennelli; la seconda, illustratrice e poi ceramista, ha invece uno studio luminoso all'ultimo piano, dove troviamo ancora barattoli, vasi brillanti, piccole sculture di figure femminili, una tigre di carta, e nel mezzo di una delle stanze, un ciliegio fiorito.

Barbara Gallas nel suo atelier. Foto di Nicholas Berardo.

Il motivo per cui questo luogo sia diventato nel tempo la sede di tanti studi di artista sta in parte proprio nella sua utilitas, ossia nella sua originaria funzione industriale, che ne ha modellato la forma rendendola adatta ad ospitare poi tutt'altro tipo di produzioni: le grandi finestre permettono alla luce di inondare gli spazi, le altezze non consuete consentono di lavorare a opere di grandi dimensioni, e certamente è determinante anche la dinamica dei prezzi che, almeno fino a qualche anno fa, rendeva un ex edificio industriale poco appetibile sul mercato degli affitti.

Stella Marina Gallas nel suo atelier. Foto di NIcholas Berardo.

Angelo è uno dei primi ad affittare uno spazio qui, nel 2004; all’ultimo piano c’è la sede di Radio Rock, ai piani inferiori arrivano altri artisti, tra cui Pizzi Cannella e Dessì. Qui si organizza il primo K Party, la festa segreta che alimenta l’anima underground di Roma, qui viene curata da Achille Bonito Oliva, nel 2012, la mostra “Artisti in condominio”: “Nella seconda decade del terzo millennio, il secondo piano del Portonaccio è totalmente abitato da artiste e artisti dell’ultima generazione, ognuno portatore di una poetica individuale e singolare, ma tutti partecipi ad un quotidiano intessuto di solidarietà, scambio e dialogo”, si legge nel comunicato stampa.

L'atelier di Stella Marina Gallas. Foto di NIcholas Berardo.

E’ una Soho romana, una via Margutta multipiano e periferica, coi loft degli artisti e la voce inconfondibile di Remo Remotti che quasi tutti i giorni dalle frequenze di Radio Rock declama: “Adesso vi spiego in 3 parole perchè sono andato via da Roma nel '51”.

L'atelier di Barbara Gallas. Foto di Nicholas Berardo.

Questo fermento si interrompe nel 2013, quando la proprietà dello stabile per ragioni economiche inizia a vendere gli immobili: molti vanno via, qualcuno compra, tra questi Angelo Cricchi; anche Radio Rock lascia lo stabile, la sua sede diventa l’appartamento di Stella Marina Gallas; poi arriva sua sorella Barbara, altri artisti, giornalisti, architetti. L’anima di luogo creativo sopravvive, ma lo spirito comunitario di quei 10 anni di eventi e collaborazioni diventa un po’ meno forte, e quello che sembrava l'inizio di un processo di riqualificazione di un intero quartiere resta confinato dentro l'ex silos.

L'atelier Lost and Found di Angelo Cricchi a via Arimondi. Fotografia di Nicholas Berardo.

Allora la domanda che rimane sottesa è sempre la stessa, e rispolvera l’antica rivalità con quella che molti considerano l’altra capitale d’Italia, quella economica: perché a Milano gli ex quartieri industriali diventano cittadelle creative e a Roma no?

La domanda, come la rivalità, posta in questi termini in realtà non ha molto senso, perchè Milano e Roma sono due città diversissime per assetto economico, ruolo strategico, e anche per struttura urbana: i grandi quartieri ex industriali di Lambrate o Tortona hanno un’altra densità, un altro tipo di impianto che rende più facile il passaggio dalla città industriale (che Milano è stata e Roma no) a quella post-industriale con l’insediamento di nuove attività tipiche dell’economia dei servizi.

L'atelier di Stella Marina Gallas. Foto di NIcholas Berardo.

Ci spostiamo allora in un’altra area industriale di Roma, quella di Pietralata, che ha caratteristiche urbane molto diverse da quelle di Casal Bertone: qui il tessuto residenziale è rado e diverse fabbriche sono nate nel tempo, non lungo la ferrovia ma intorno a un’infrastruttura di tipo diverso, quella naturale del fiume Aniene.

Ex Lanificio Luciani. Foto di Giulia Manelli e Sebastiano Luciano.

Tra queste, l’ex Lanificio Luciani è un altro luogo dove arte, professioni e cultura underground si incontrano in un edificio industriale dal fascino decadente: una discoteca, studi di architettura e fotografici, laboratori artigiani dall’inizio degli anni 2000 si insediano in questo angolo di Roma dove l’abbandono della produzione industriale e la lontananza dal contesto urbanizzato hanno creato un rapporto peculiare con la natura selvaggia, che si è ripresa pian piano i suoi spazi e adesso invade il paesaggio visibile dalle grandi finestre; ancora una volta, sembra che la città finisca qui, e invece è tutta intorno, a portata di mano.

Ex Lanificio Luciani. Foto di Giulia Manelli e Sebastiano Luciano.

“Questi ambienti così ampi originariamente erano stati pensati per essere invasi da macchine tessili e produttive di grandi dimensioni” ci dice Emanuele Mantrici, socio fondatore dello studio di architettura Kami che qui ha trovato la sua sede dal 2012 “Questo ci ha permesso di poter giocare con doppie altezze, piani sfalsati e pedane, cercando di preservare accuratamente gli elementi originari per lasciare intatta la forte dicotomia tra un luogo completamente délabré, quasi respingente, ostile, e la natura selvaggia e invadente del fiume Aniene”.

Studio Kami nell'ex Lanificio Luciani. Foto di Giulia Manelli e Sebastiano Luciano.

Anche qui però l’idea di riconvertire il distretto industriale in un distretto creativo fatica a decollare. “Nel quartiere sono tanti gli spazi a disposizione che potrebbero essere riqualificati, ma di fatto l’ex Lanificio Luciani rappresenta un caso unico” ci spiega l'altro socio, Emanuele Custo “Qui le attività sono nate prevalentemente in modo spontaneo, “colonizzando” in maniera istintiva e naturale degli spazi creati per altre funzioni. Estendere questo modello, programmandolo e investendo delle risorse, potrebbe essere un ottimo aiuto alla riqualificazione delle periferie urbane”.

Studio Kami nell'ex Lanificio Luciani. Foto di Giulia Manelli e Sebastiano Luciano.

Il punto è anche che il passaggio all’economia post-industriale che ha vissuto Milano con la produzione di servizi ad alto valore aggiunto (design, marketing, comunicazione etc.) e le conseguenti trasformazioni urbane – un passaggio tra l’altro assolutamente non recente, breve o indolore – è stato possibile anche perché c’è stato un passato industriale fatto di produzioni di beni materiali che di quei servizi hanno avuto bisogno per restare competitivi sul mercato, andando a creare una filiera e una simbiosi con le professioni creative che nel tempo ha portato a eventi come il Salone del Mobile.

Roma paga quindi ancora oggi la scelta, fatta più di un secolo fa, di essere destinata a diventare capitale della burocrazia dello Stato centrale e dell’edilizia tirata su per alloggiare in massa il ceto notabile e impiegatizio e quello del proletariato delle costruzioni; per una vera transizione al modello di città post-industriale evoluta servirebbero non solo investimenti, ma anche visione, un surplus di lungimirante direzione pubblica e di competente politica urbanistica, che nell’approccio del lassez-faire tipico della città liberista adottato dagli anni Novanta in poi un po’ ovunque – non solo a Roma – sembra mancare del tutto.

L'ex silos di via Arimondi. Foto di Nicholas Berardo.

Torniamo allora a Casal Bertone con un po' di malinconia, ormai è quasi il tramonto. Nelle piazza di Santa Maria Consolatrice i bambini giocano a pallone, gli anziani al bar chiacchierano, il barista in livrea serve tramezzini a un avventore abituale e indolente, gli studenti fuori sede parlano al telefono mischiando il loro accento con le voci della piazza. Nella luce calda di aprile questa Roma piena di vita e così lontana dal Pantheon, dal Parlamento, dal Papa, è una delle più romane che ci sia. Chi crede che Roma sia solo “quella Roma che ci invidiano tutti, la Roma caput mundi, del Colosseo, dei Fori Imperiali, di Piazza Venezia, dell'Altare della Patria”, della Roma di oggi forse non ha capito niente, non la conosce.

Sulle scale dell'ex silos di via Arimondi. Foto di Nicholas Berardo.

Si parla sempre di “ripartire dalle periferie”, ma come se le periferie fossero luoghi perduti in cerca di redenzione; e invece pure tra mille problemi sono centri di vita, di una bellezza non scontata e possiedono oggetti urbani unici - come gli ex edifici industriali, alcuni interventi di edilizia popolare di grande qualità, un rapporto con la natura e le infrastrutture peculiare – che aspettano solo di essere “amati”: che qualcuno li sottragga a un destino di irrilevanza, li renda protagonisti della scena, e magari da qui faccia partire una nuova visione per l'intera città.

L'atelier di Stella Marina Gallas. Foto di NIcholas Berardo.

Durante Open House Roma sarà possibile visitare gli atelier Lost and Found, Barbara Gallas e Stella Marina Gallas di via Arimondi partecipando all'evento “Arimondi 3 Rewired”. L'atelier di Barbara Gallas ospiterà la mostra EcletticArt bgf - Progettazione e realizzazione di manufatti artistici di Barbara Gallas e Giorgia  Funaro. All'ex Lanificio Luciani sarà possibile visitare gli studi di architettura Kami Studio e Mir Architettura. Più info al nostro programma.

Quest'articolo è stato realizzato per Open House Roma 2019 / Utilitas in collaborazione con CieloTerraDesign e fa parte di Rooms, progetto editoriale curato da Open City Roma.

 

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